Nato a Pieve di Cadore intorno al 1488-90. Dopo un apprendistato con S. Zuccato, mosaicista, fu nella bottega di Gentile Bellini e quindi presso Giovanni Bellini. Il suo orientamento appare subito sicuro e geniale: i suoi riferimenti (Bellini, Giorgione, Dürer, ma anche Raffaello e Michelangelo) si configurano come strumento di aggiornamento e di arricchimento espressivo da parte di una personalità già pienamente indipendente. Tra le prime opere veneziane, accanto alla paletta di Anversa (Musée royal des beaux-arts, 1506 circa), compendio della tradizione belliniana e delle novità tedesche, al giorgionesco Concerto (Firenze, Galleria Palatina), al Cristo portacroce (Venezia, Scuola di S. Rocco), sono gli affreschi del Fondaco dei Tedeschi (1508-09) dove nel 1508 era all'opera Giorgione. Anche dai pochi frammenti rimasti (Venezia, Ca' d'Oro) si delinea la distanza tra i due maestri - anche in quelle opere, vicine per impostazione e tematiche, che hanno indotto incertezze attributive (Concerto campestre, 1509-10, Louvre) e ipotesi diverse di collaborazione (Venere, Dresda, Gemäldegalerie) - soprattutto per l'impostazione monumentale e l'ampia gestualità delle figure, i vivi e luminosi accordi cromatici dei vasti piani di colore, evidenti nella prima opera documentata conservata, gli affreschi della Scuola del Santo a Padova (1511). Nel 1513 rifiutò l'invito di P. Bembo a trasferirsi a Roma, e contestualmente offrì i proprî servigi alla Serenissima, impegnandosi a dipingere una Battaglia per Palazzo Ducale (terminata nel 1538). Artista colto, trattò per committenze ufficiali e private le tematiche più diverse: dalla immediata allegoria moraleggiante delle Tre età (1512-13, Edimburgo, National gallery of Scotland) alla complessa e serrata metafora dell'Amor sacro e profano (1514-15, Roma, galleria Borghese), dove l'assenza di notizie certe sulla sua genesi progettuale è alla base della lunga e discorde storia della sua interpretazione da parte della critica. Tra i dipinti religiosi sono l'Assunta (1516-18) di S. Maria dei Frari, grandiosa macchina luminosa e cromatica che si impone come punto focale nell'amplissimo interno della chiesa; la pala Pesaro (1519-26, per la stessa chiesa), dalla nuovissima e suggestiva impaginazione spaziale basata sulle diagonali; la pala Gozzi (1520, Ancona, Pinacoteca Comunale); il polittico Averoldi (1522, Brescia, SS. Nazaro e Celso), in cui T. restituisce unità scenica alla tradizionale divisione in scomparti. Al successo raggiunto in questi anni fa riscontro il favore incontrato presso le corti italiane e europee: per Alfonso d'Este dipinse grandi tele mitologiche (Offerta a Venere, 1518-19, Prado; Bacco e Arianna, 1522-23, Londra, National Gallery; Gli Andri, 1523-24, Prado); numerosi i ritratti per le grandi famiglie, nei quali alla idealizzazione del carattere o alla rappresentazione del ruolo sociale fa riscontro la straordinaria intensità psicologica o emozionale (Carlo V col cane, 1532-33, Prado; Isabella d'Este, 1536, Vienna, Kunsthistorisches Museum; Francesco Maria della Rovere e Eleonora Gonzaga, 1537, Uffizi); per Guidobaldo della Rovere eseguì la Venere di Urbino (1538, Uffizi), allegoria matrimoniale dalla scoperta sensualità. Il confronto con le esperienze manieriste dell'Italia settentrionale e centrale, culminato con il viaggio a Roma del 1545-46, determinò una nuova fase di sperimentazione stilistica: dalla classica dignità formale delle prime opere T. giunse a nuove soluzioni, dove i contrasti chiaroscurali, il plasticismo e il dinamismo compositivo tendono a risolversi nella preziosità del colore e nel libero e accentuato luminismo (Incoronazione di spine, 1542-44, Louvre; Danae, 1544-45, Napoli, Museo nazionale di Capodimonte; Paolo III con i nipoti, 1546, ivi). Alla risposta decisamente veneziana data da T. alla cultura romana seguirà tuttavia, con i soggiorni ad Augusta del 1548 e del 1550-51, una rarefazione della produzione per Venezia, che corrispose a un impegno crescente per la committenza di Carlo V e di Filippo II di Spagna. Carlo V a cavallo (1548, Prado) è esempio dell'originalità con cui T. sviluppò il "ritratto di Stato"; sempre per Carlo V trattò il tema religioso nella Gloria (1551-54, Prado), immagine di acuta funzionalità teologico-politica, quindi nella Deposizione (1559, ivi), nella S. Margherita (1560-65, ivi). Per Filippo II tornò ad eseguire dipinti mitologici, ma secondo una nuova interpretazione drammatica e negativa (Venere e Adone, 1554, Prado; Diana e Atteone e Diana e Callisto, 1556-59, Edimburgo, National gallery of Scotland; Morte di Atteone, 1570-76, Londra, National Gallery). Alla sofferta meditazione sul destino dell'uomo delle ultime opere fa riscontro la totale dissoluzione della forma, in un linguaggio fatto di tocchi di luce e colore, spesso dato sulla tela direttamente con le dita; una libertà espressiva per la quale T. accettò anche l'inadempienza dello spregiudicato committente spagnolo, che gli permetteva d'altro canto una totale libertà di invenzione e di interpretazione. Punti cruciali e conclusivi di questo itinerario sono l'Incoronazione di spine (1570, Monaco, Alte Pinakothek), il Supplizio di Marsia (1570, Kroměříž, pinacoteca del castello), la Pietà (Venezia, gallerie dell'Accademia), dipinta per la propria tomba e rimasta incompiuta nel suo studio. Muore a Venezia nel 1576. Il figlio Orazio (n. 1515 circa - m. Venezia 1576) fu suo allievo e collaboratore.