Catalogo dei beni culturali
Musei civici del comune di trieste
Giuseppe Tominz propone un autoritratto in forma assolutamente originale che lo vede vestito di tutto punto ma accucciato e con i calzoni aperti posteriormente, nell'atto di espletare le sue funzioni corporali, con lo sguardo ridente puntato sull'osservatore e un fascio di carta di giornale pronto all'uso nella mano sinistra. Accanto a sé, ha appoggiato per terra il cappello a cilindro. Entrato a far parte delle collezioni del Museo Revoltella a partire dal 1930, l'Autoritratto su tavola, eseguito tra il 1838 e il 1840, è certamente una delle opere più conosciute del pittore goriziano e anche uno dei ritratti maggiormente rappresentativi del singolare fare pittorico di Giuseppe Tominz. In precedenza - negli anni Venti - era stato per qualche tempo nella collezione di un noto avvocato e uomo politico goriziano, Francesco Marani. L'opera, però, non era gradita alle donne della sua famiglia, che, per non avere continuamente sotto gli occhi quell'immagine imbarazzante, provvidero persino a celarla dietro una tenda. Fu così che, dopo un po' di tempo, il dipinto ritornò al nipote Alfredo Tominz, il quale lo cedette ai Civici Musei di Storia e Arte, da cui successivamente passò al Museo Revoltella. Quanto all'ubicazione originaria dell'Autoritratto, come si ricava dall'archivio Cossar, in un primo momento era stato ospitato nella casa del fratello Francesco a Prevacina e poi era passato nella casa del pittore a Gradiscutta, dove, fino a che egli fu in vita, rimase applicato all'interno della porta del servizio. Ereditato dal nipote Alfredo, fu portato, probabilmente alla fine dell'Ottocento, a Trieste. Il primo cenno sull'opera si trova in una nota di Giovanni Cossar del 19 agosto 1913 (allora era direttore del Museo civico di Gorizia) scritta dopo una visita ad Alfredo Tominz al Museo Revoltella: "Inoltre promise che dopo la sua morte lascerà in dono al Museo civico di Gorizia il ritratto a olio del pittore Giuseppe Tominz, dipinto in grandezza naturale sopra tavola in atto di fare bisogni grandi nella latrina di Gradiscutta". Circostanza confermata anche nella lettera del 1919 a Ugo Ojetti: "Io conservo il suo autoritratto grande al vero dipinto sopra tavola ed il Nano già esposto a Firenze". Certamente le intenzioni di Alfredo Tominz circa la donazione mutarono in seguito alla soppressione del Museo civico e agli sconvolgimenti provocati a Gorizia dalla guerra. L'opera fu citata per la prima volta, ma non riprodotta, nel catalogo del Museo Revoltella del 1933 e nel '34 fu illustrata, limitatamente alla parte superiore, nell'articolo pubblicato su "Pan" da Silvio Benco, che ne fece il "documento di un'epoca" , espressione di quella "borghesia levigata alla superficie, studiosa delle abitudini signorili; nel fondo ancora popolaresca, ancora attaccata al bicchiere, al batter carte, alle lepidezze schioccanti che fanno sghignazzare i maschi e arrossire le donne"; l'artista apparteneva, dunque, secondo Benco a questo mondo un po' volgare e il suo autoritratto "umoristico" lo dimostrava efficacemente: "sciolto le brache, si libera del pondo d'un desinare in casa d'epicurei; e accanto a sé ha posato a terra un compitissimo cappello a cilindro". Anche Marini, nel 1952, interpretò questo lavoro solo come una parentesi scherzosa nel suo lavoro di ritrattista ("Per una boccacesca burla, infatti, il pittore s'era voluto dipingere su quella porta nell'atto dell'ignobile rito. Eppure quest'immagine nata in un momento di comicità triviale non poteva darci con più confessata sincerità, con più immediata evidenza l'animus dell'artista nel suo primo soggiorno sotto il colle di San Giusto") e come l'auto rappresentazione di un semplice e di un gaudente. Solo Coronini, nel 1966, si pose il problema della qualità artistica del dipinto, che, riteneva un vero capolavoro per "l'importanza decisiva che la rappresentazione più efficace, più immediata, più icastica della realtà" andava assumendo nell'arte di Tominz, "fino a ricercare l'illusionismo assoluto". È indubbio che il modo in cui Tominz scelse di rappresentarsi nel pieno della sua maturità, umana e artistica, ha un carattere anticonformista e provocatorio, che risalta ancor di più se si confronta con l'immagine idealizzata dell'Autoritratto col fratello Francesco. Ed è probabile che sia frutto della reazione ad un mestiere che lo obbligava continuamente a camuffare la realtà, di cui si colgono i segni anche in altri ritratti della seconda metà degli anni Trenta (come Ciriaco Catraro o i due Anziani) caratterizzati da un ostentato realismo. Ma non basta, forse, a spiegare l'invenzione di una posa così inconsueta, anzi, assolutamente unica nella tradizione degli autoritratti, e un tono di sfida che presuppone inevitabilmente un interlocutore, anche se la risposta è destinata a rimanere nella dimensione privata. Se si fa caso ai cattivi rapporti che intercorsero proprio a partire dalla fine del 1838 tra Tominz e i critici d'arte triestini, in particolare quelli che pubblicavano "La Favilla", tra cui soprattutto Francesco Dall'Ongaro, che attaccò ripetutamente la pittura di ritratto, ritenendola un genere minore a cui si dedicavano solo artisti mediocri e venali, e consigliò polemicamente a Tominz di dare "più vita, più carnagione" ai suoi volti, di indagare "in tutte le consuetudini, gli affetti, i riposti pensieri" dei suoi soggetti, di "seguire il suo originale nelle scene della sua vita abituale", onde evitare le "posture compassate e il plastico sorriso di una faccia annoiata", si può forse interpretare l'Autoritratto accovacciato e ridente come la risposta più clamorosa a questi consigli e il fascio di pezzi di giornale stretti in mano un'allusione chiarissima all'uso che egli faceva di certa carta stampata. La plastica sagoma del pittore si staglia contro un fondo chiaro e un po' irreale che male si accorda con il sapiente gioco di luci e ombre creato sul gradino che lo regge.