Catalogo dei beni culturali
Musei civici del comune di trieste
La pittrice Leonor Fini si ritrae a mezzo busto, di tre quarti, con lo sguardo intenso puntato verso l'osservatore. La generosa scollatura del vestito screziato contribuisce ad evidenziare il lungo collo flessuoso, mentre l'incarnato chiarissimo è accentuato dal contrasto con gli occhi e i capelli neri, oltre che con l'arancione del cappello ad ampia tesa che incornicia il volto. Il colore vivace del copricapo spicca a sua volta con forza sull'azzurro scuro del fondo.
L'Autoritratto con cappello arancione, recentemente donato al Museo Revoltella, fu esposto alla Galleria Torbandena nel 1968, in occasione della mostra personale di Leonor Fini. Realizzato nel momento della riconversione stilistica della pittrice, in nome di una maggior definizione dei contorni e di solidificazione delle forme, l'autoritratto svela una volta di più la stravaganza e la malia del soggetto rappresentato. L'esuberanza del contrasto cromatico, caratteristica eccellente di questa immagine incisiva e sensuale, restituisce il ritratto psicologico della protagonista, artista irrequieta, curiosa, viaggiatrice instancabile, legata d'amicizia a innumerevoli personaggi illustri del mondo artistico e culturale europeo. Nel corso della sua lunga e versatile attività artistica sperimentò anche la decorazione teatrale, curando scenografie e costumi per balletti e per melodrammi. Artista dalla personalità prorompente (Max Ernst la definiva "furia italiana") e fantasiosa, Leonor Fini nasce a Buenos Aires da Herminio Fini, argentino di origini beneventane e dalla triestina Malvina Braun. Trascorre l'infanzia e l'adolescenza a Trieste con la madre e la sua famiglia di origini tedesche che le trasmettono una cultura raffinata e di respiro europeo. "Verso i 13-14-15 anni - racconta l'artista - preferivo dipingere che studiare; provavo diverse materie: scarabocchi con incrostazioni di buccia d'uovo con pasta di lievito, pasta di pane, perline, grani di riso, segatura, zucchero, tutto quello che mi capitava sottomano" (Leonor Fini, testo di presentazione alla mostra del 1997, Trieste, Galleria Rettori Tribbio 2). Di natura indipendente, a diciassette anni lascia la famiglia per recarsi a Milano dove, oltre a mantenere una stretta amicizia con gli artisti suoi concittadini Carlo Sbisà e Arturo Nathan che qui esponevano, ha l'opportunità di conoscere pittori innovativi quali Carrà, Sironi, de Chirico e Achille Funi, che la rendono sensibile alle tematiche classiciste. "A Milano - narra ancora la Fini - vidi nello studio di Funi il suo classicismo che associai agli affreschi di Luini nella Villa Palucca a Brera che mi hanno sempre molto incantato". Rientra a Trieste soltanto in occasione delle mostre sindacali (dal 1927 al 1930). Nel 1931 si stabilisce a Parigi (a Le Marais) e già nell'anno successivo espone alla Galerie Bonjean (di cui era direttore Christian Dior). Entra in contatto con i protagonisti del movimento surrealista (tra questi, Paul Eluard, Max Ernst e Georges Bataille), ma non vi aderisce perché ama individuare la propria strada in solitudine e, in generale, le "appartenenze" la infastidiscono. Tuttavia, nel 1936, esporrà con il gruppo a Londra e a New York. Dopo aver esordito con delle figure femminili allungate e intrecciate tra loro, ben definite e precise e da lei definite "Iniziali", riecheggianti la pittura surrealista, la Fini elabora forme animali e vegetali, "talvolta umane al limite delle metamorfosi", in cui, come lei stessa ha affermato, "il modo di fare è difficilmente percettibile". Nel corso degli anni '50 l'artista muta radicalmente il suo stile, preferendo "muovere, rovesciare, tormentare la materia ordinata" realizzata fino a quel momento, ma alla quale tornerà immediatamente dopo per non abbandonarla mai più. Ecco dunque una serie di dipinti che la critica assegnò al cosiddetto "periodo minerale". "Fu una tentazione dettata dal "tachisme"? -si domanda in quella occasione l'artista- "Io non credo, perché ero già quasi passata di là gettando sulla carta o la tela posta per terra della pittura liquida e camminandoci sopra. Questi graffi, striature, guizzi - conclude quindi la Fini- a me non sembravano "minerali", ma quasi le impronte nascoste del periodo precedente".
Masau Dan Maria, Il museo Revoltella di Trieste, Vicenza, Terra Ferma, 2004, pp. 192-193