Catalogo dei beni culturali
Musei civici del comune di trieste
Nato a Udine nel 1906, si trasferì ancora bambino a Trieste, città a cui la sua esperienza professionale rimase particolarmente legata. Nel capoluogo giuliano M. decise di assecondare le proprie giovanili inclinazioni artistiche iscrivendosi, nel 1921, alla Scuola per capi d’arte dell’Istituto cittadino Alessandro Volta, nella sezione scultori ornatisti, dove prese a seguire le lezioni di Alfonso Canciani. Fu proprio quest’ultimo a fornirgli i fondamenti del mestiere e sotto la sua guida M. conseguì il diploma nel 1924. Completato così il suo percorso formativo, egli lavorò per un anno con Franco Asco che si era già affermato sulla scena artistica triestina con uno stile di ascendenza secessionista. A contatto con Asco, M. ebbe modo di sviluppare il proprio linguaggio espressivo ancora fortemente sintonizzato su inflessioni Liberty e simboliste in direzione di forme plastiche di maggior impatto visivo derivate dai modelli offerti dallo scultore serbo Ivan Meštrovič come testimonia la testa di Beethoven (Trieste, Civico museo Revoltella) presentata da M., nel 1925, alla II Esposizione biennale del Circolo artistico di Trieste, nel contesto della quale l’artista, appena diciannovenne, compì i propri esordi professionali. Questa partecipazione inaugurò per M. un intenso periodo espositivo, culminato con la III Mostra sindacale triestina del 1929, dove gli fu assegnata la medaglia d’argento del Ministero dell’istruzione per l’opera, oggi dispersa, raffigurante il Ribelle. A quella data lo scultore dimostrava di aver ormai metabolizzato sia l’esperienza simbolista che quella della sintesi formale novecentista ed era pronto ad aprirsi a nuove sollecitazioni visive rappresentate dalla scultura di Arturo Martini. Conosciuto grazie alla grande sala personale allestita dallo scultore trevigiano alla I Quadriennale romana del 1931, alla quale M. fu pure chiamato a partecipare, egli si lasciò inizialmente affascinare dall’esibita sensualità di alcune opere martiniane di quegli anni trasfondendone le suggestioni nella sua Erotica (collezione privata) portata a termine nella primavera del 1931. Il soggiorno compiuto nell’Urbe in quella circostanza gli permise di visitare le collezioni di antichità del Museo di villa Giulia, dove erano conservati molti materiali di origine etrusca. Tale esperienza gli consentì di superare le forme bloccate e chiuse delle poetiche novecentiste per approdare ad un linguaggio espressivo semplificato e arcaizzante e ad una moderna disarticolazione spaziale nelle pose delle sue figure come dimostrano opere quali La sirena (1933; Trieste, Civico museo Revoltella) presentata all’Esposizione sindacale di Trieste nell’anno della sua realizzazione. I traguardi stilistici conseguiti da M. nel medesimo arco cronologico si devono però, oltre che al contatto con gli esiti più aggiornati della coeva plastica nazionale, anche al confronto serrato che l’artista poté istituire con alcuni dei maggiori esponenti della scultura regionale, primo fra tutti con Dino Basaldella. La Mostra sindacale di Udine del 1931 e quella triestina del 1932 gli fornirono infatti l’occasione di conoscere le realizzazioni dello scultore friulano, impegnato in quel periodo in una rimeditazione formale di sapore arcaico, volta al recupero di volumi ottenuti da masse compatte sulle quali interveniva l’incisione dei tratti anatomici e di altri elementi caratterizzanti la scultura stessa. La testimonianza più diretta di tale confronto rimane, per M., il Busto dell’attrice Diana Lante (1933; Gorizia, Musei Provinciali), esposta alla Permanente triestina del 1934, anno della prima partecipazione di M. alla Biennale di Venezia. Gli anni Trenta furono quelli di maggiore impegno espositivo per l’artista che partecipò a tutte le edizioni delle Quadriennali romane. Nel 1938, inoltre, fu chiamato ad allestire una sala personale alla Biennale veneziana, dominata da sculture che segnavano il passaggio ad un nuovo modo di concepire la modellazione plastica. Le opere appartenenti a questo periodo, abbandonando l’arcaismo di superficie, miravano piuttosto ad impossessarsi delle forme più semplici e vere del reale trasfondendo in esse uno stupefatto senso del mistero universale della natura. Appartengono a questa produzione l’Estate (1936; Trieste, Civico museo Revoltella) e il Rapsòdo (1935; Trieste, Civici musei di storia e arte) che risultarono tra i lavori più apprezzati dalla critica mascheriniana di quegli anni. Il riferimento plastico più vicino a queste realizzazioni rimaneva ancora Arturo Martini che dalla metà degli anni Trenta aveva dimostrato di voler attingere ad una rinnovata dimensione scultorea monumentale e classica di matrice cinquecentesca subito recepita sul panorama figurativo nazionale da molti artisti, tra i quali appunto M. All’influsso martiniano si affiancava, nella produzione dell’artista triestino, anche una riflessione sui materiali, il bronzo e il marmo nella fattispecie, legati alla tradizione classica nazionale secondo una tendenza che, riemersa negli anni del Ventennio fascista, sarebbe andata precisandosi nelle opere presentate alla Quadriennale romana del 1943 dove ebbe l’onore di una sala personale. Se un’opera deve essere individuata a rappresentare nello specifico questo rinnovato sviluppo della plastica mascheriniana, è senza dubbio Eva, bronzo del 1939 (collezione privata), che riproponendo la ripresa di motivi classicamente orientati li filtrava attraverso modelli di primo novecento derivanti direttamente da suggestioni internazionali. A fornire occasione di meditazione sulla figura femminile nuda nelle sue varianti figurative della posa stante, distesa o seduta furono soprattutto i modelli proposti dallo scultore francese Aristide Maillol i cui volumi turgidi e pieni costituirono un termine di confronto costante per M. che nel corso degli anni Quaranta licenziò dal suo studio una serie pressoché ininterrotta di nudi femminili culminati nella Flora (collezione privata) e nella Primavera (collezione privata), opere entrambe del 1948. Su queste sculture, se da un lato continuava ad agire il fascino di Maillol, dall’altro cominciava cautamente ad imporsi l’attenzione ad altri linguaggi moderni, primo fra tutti quello picassiano che, noto in Italia già negli anni Trenta, fu riportato di stretta attualità alla Biennale del 1948. Da quel momento la ricerca plastica di M., pur mantenendo inalterato il suo fondamento realistico, prese a puntare ad un’ulteriore semplificazione formale giocata sulla rimeditazione del linguaggio postcubista, associato a elementi surrealisti. Il primo lavoro in cui si manifestò tale tendenza deve essere considerato il rilievo raffigurante l’Anello degli Argonauti pensato inizialmente per decorare il soffitto del salone delle feste della turbonave Conte Biancamano e collocato, nel 1950 in seconda fusione, sul soffitto dell’aula magna dell’Università di Trieste. Con la partecipazione alla Biennale di Venezia del 1950, M. ebbe la possibilità di entrare in contatto con le ricerche più moderne della plastica internazionale e, nello specifico, di scultori francesi quali Henri Laurens e soprattutto Ossip Zadkine. Queste ed altre suggestioni finirono per estrinsecarsi nelle opere presentate da M. alla Biennale veneziana del 1954 soprattutto nel Risveglio di primavera (Trieste, Civico museo Revoltella) e nel Fauno (Anversa, Middelheimmuseum), caratterizzate da una sempre più accentuata sintesi formale, spinta fino al frammento e ben rappresentata dall’Icaro del 1957 (collezione privata). Nel corso del decennio, inoltre, M. si impegnò attivamente nell’organizzazione del programma culturale del Circolo della cultura e delle arti di Trieste, dove, tra il 1947 e il 1982, fu direttore della sezione Arti figurative. Negli anni Sessanta le sue sculture, ottenute per sistematiche sintesi volumetriche, cominciarono ad essere contraddistinte da superfici tormentate e scabre, percorse da solchi profondi tali da renderle estremamente sensibili alla luce. Nell’ultima fase della sua attività, venne, infine, accentuandosi l’aspetto allegorico e simbolico dei suoi lavori come si evidenzia nel Frutto proibito (1972) oggi conservato presso la Galleria d’arte moderna di Udine. L’inaugurazione nel 1982 del busto di James Joyce (1981) nel giardino pubblico di Trieste concluse idealmente la copiosissima attività dello scultore che morì a Padova nel 1983.